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Dal complicato al complesso

La storia del pensiero scientifico e filosofico contemporaneo è segnata, già a partire dalla fine del XIX secolo, dalla progressiva presa di coscienza di un lento ma inesorabile dileguarsi delle certezze, dei fondamenti teorici e pratici del sapere. Si è compreso che nella conoscenza della realtà non si tratta soltanto di raccogliere un numero considerevole di dati relativi ad un fenomeno, per meglio definirlo, e che non è il numero elevato di variabili in gioco a stabilire la presenza di una complessità, quanto piuttosto il loro essere visibilmente intrecciate in un gomitolo mal arrotolato di relazioni.

Il criterio che permette di differenziare complicatezza e complessità scaturisce dall’evidenza del limite intrinseco alle spiegazioni che puntano a semplificare, a ridurre e ad ignorare le innumerevoli relazioni possibili fra fenomeni ed eventi diversi.

Tutto questo implica un notevole spostamento di prospettiva: ogni idea di esattezza, se è derivata da una concezione del mondo come meccanismo complicato, descrivibile con formulazioni matematiche lineari e scomponibile in elementi semplici, una sorta di mondo-orologio, è fittizia.

La realtà è un organismo, cioè un nodo di relazioni, una ragnatela dal comportamento disordinato, irreversibile, non lineare e creativo.

Nel mondo pensato ordinato e prevedibile hanno fatto quindi il loro ingresso come un cavallo di Troia le figure inquietanti del disordine e del caos.

Se le leggi non dicono nulla di preciso e affidabile riguardo il verificarsi di un fenomeno nello spazio e nel tempo, se sono ormai soltanto descrizione di una possibilità che le cose accadano, allora la scienza si riduce ad essere solo uno dei possibili discorsi sul mondo, non più l’unico esatto  e le sue regole appaiono sempre più simili a regole di un gioco.

Vi sono nell’uomo delle qualità ricche ed essenziali che sfuggono alla logica, che non sono materiali né quantificabili e che non si possono vedere sotto il microscopio o pesare con la bilancia o captare col microfono più sensibile.

In questo scenario l’arte assume la dignità di propulsore e si propone allora come uno dei fondamentali punti di osservazione e di interpretazione della realtà.

 

La mia pittura rifugge da ogni forza persuasiva del bello e cerca di influenzare le emozioni attraverso una riflessione sull’informe (come raggiungere il reale eludendo il passaggio dal simbolico) e sulle ragioni del diverso di fronte all’identico. Pensiero che trae spunto dal principio secondo il quale la casualità deve essere messa in condizioni di esplorare nuove opportunità espressive senza però degenerare in una variabile di attrito con effetti distruttivi.

L’immagine così investe il senso nello spessore dell’incertezza del percepito.

“Il più bello dei mondi è un mucchio di rifiuti gettato dal caso” (Teofrasto, metafisico, III sec. a.c.)

Il linguaggio delle mie opere è calibrato per coloro che, messi di fronte ad un equilibrio alterato, vogliano rimuovere il disagio dell’arbitrio, del precario e spronati da aspettative di stabilità e guidati da principi di tolleranza verso l’inatteso, tentino incessantemente di ripristinare una regola, un ordine accettabile imbattendosi ogni volta in processi diversi. Paradigma di complessità che invita alla riflessione sulla relazione e che presenta gli oggetti come forme inaspettate e non catalogabili.

Il mio fare procede, senza un progetto prestabilito, partendo da un elemento casuale ma suggeritore si articola secondo tentativi, verifiche e correzioni in un gioco ambiguo tra caso e scelta volontaria, e si interrompe quando la materia-forma ottenuta risulta essere sorda a ulteriori richieste, rendendo inutile l’enunciazione delle intenzioni che l’hanno originata.

L’occhio a volte è sollecitato a divenire una mano che tocca per catturare un senso, a volte è stimolato a indagare il segno incerto della realtà lungo l’orlo del provvisorio, in una zona grigia e sfumata in precario equilibrio tra ordine e disordine.

L’opera si presenta allora come pratica di straripamento che supera sistematicamente i confini della sua misura producendo un sistema di impossibilità, proponendosi come un movimento di sconcerto organizzato che nello stesso tempo è progetto e casualità creativa.

Essa sostituisce così all’innocenza artigianale lo sguardo obliquo della memoria che accantona la sterile riproduzione a vantaggio di una creativa complementarietà d’interferenze.

Aspirazione ad una teatralità intesa non come pateticità retorica ma come nuovo mondo comunicativo che, soggetta ad una sorta di principio di indeterminazione, pone in relazione osservatore e osservato, frantumando così l’unicità della percezione in una galassia di significati.