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La fruizione contagiata dalle parole

 

Il valore di un’immagine scaturisce dalla relazione tra l’opera d’arte e l’osservatore che trova in sé, nella sua interiorità, cultura e sistema di attese, il senso di ciò che è lui astante, stimolato dagli “artifici” messi in atto dall’artista. Solo al fruitore/destinatario compete la responsabilità interpretativa dell’opera perché la sua esperienza estetica non è né prevedibile, né determinabile completamente da parte dell’artista/artefice. Infatti l’idea che il visibile abbia una dimensione matematica e omogenea, ovvero sia indipendente dal soggetto percettore è stata demolita dalla scoperta delle incongruenze dell’occhio: la visione è un atto irripetibile e colui che osserva “produce” l’immagine che guarda.

 

Tuttavia ritengo che accostare alle mie opere locuzioni - non impossibili commenti, né sterili titoli -  che facciano riferimento a temi specifici e caratteristici del mio “vissuto”,  possano costituire un indizio significativo, una possibilità per incontrare un nuovo senso che cambi di segno al dato reale.

 

Un metodo attuato per ottimizzare la percezione, per spronare l’immaginazione dell’osservatore a integrare in un’unica esperienza lo stimolo visivo, alimentato dalla struttura, e il processo relazionale contaminato dal titolo, caratterizzato dall’avere un forte contenuto etico, sociologico e politico.

 

Mettere in risonanza l’emozione e la ragione significa creare valore, l’artefatto appare in una nuova prospettiva come riflesso di un pensiero non gregario, la cui forza evocativa sia in grado di modellare lo statuto dell’oggetto arricchendolo di un quid, non accessorio e ornamentale, per far evaporare quell’incompiutezza che in genere il pubblico riscontra nell’arte contemporanea: l’opera allora dilata i suoi confini, dà forma al presente interpretando il clima del tempo e testimoniando le sue molte anime.