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La fallibilità delle certezze

Il nodo è interessante non come oggetto dalla portanza mistica e fantastica, ma come simbolo di ambiguità che, racchiudendo in sé più significati alla stesso tempo, incarna l’idea della complessità del mondo. La quotidianità non smette mai di sorprenderci e non perde occasione per mostrarci come le nostre immagini siano in qualche modo sfocate e vadano continuamente corrette rendendo l’impresa del vivere problematica.

La complessità viene letta in modi diversi dalla fede, dalla scienza e dall’arte e ciascuna delle tre "vie" persegue propri obiettivi fornendo un modello specifico di comportamento.

L’infallibilità non conosce i nodi.

La fede conduce ad una separazione netta tra verità ed errore. Il credente cerca ciò che ha già trovato, ciò che è conservato nel "deposito della fede", ciò che è stato costruito sapientemente dalla tradizione millenaria di cui il Magistero è geloso custode e interprete privilegiato. La fede quindi assolutizza la verità modellando il mondo con la dottrina. Chi amministra la dottrina determina le regole di comportamento, pone dei limiti, esalta il rito quale garante della felicità e del successo terreno, quale protettore dal demonio - causa di tutte le crisi, e per garantire la continuità e per dare certezze, appartenenza e identità, fa ricorso a strumenti autoritari per imporre la sua verità.

La scienza scioglie i nodi.

La scienza ha il limite che le riviene dalla capacità di porsi dei problemi e risponde ad una fondamentale dimensione umana, la volontà di analizzare la realtà alla luce della logica per contribuire a modificarla, non delegando l’analisi e l’azione. Essa, dunque, aspira a un progresso della conoscenza e non alla conquista della verità, secondo il metro di misura della funzionalità. Non esiste una teoria migliore di un’altra perché è più vera, ma solo perché spiega meglio di un’altra. Non si tratta di relativismo ma della consapevolezza che le nostre congetture debbono essere sempre messe alla prova dei fatti. Il linguaggio universale della scienza e la razionalità del metodo scientifico hanno il potere di rendere compatibili mondi altrimenti inconciliabili favorendo il dialogo pacificatore in quanto estraneo agli assolutismi e orientato intrinsecamente alla tolleranza.

L’arte usa i nodi.

La fede e l’arte accettano il mistero e sono eventi notturni dove la mente disorientata si sottrae ad ogni forza persuasiva della ragione.

Anche se le azioni umane non seguono leggi naturali, tra la scienza e l’arte c’è una profonda affinità tra istanze creative e procedure analitiche, alludendo a tutti quei processi di modellizzazione mentale che sono intermedi tra l’esperienza sensibile e l’astrazione concettuale di cui si avvalgono tanto gli scienziati quanto gli artisti. Tuttavia l’arte - rispetto alla scienza - non ha limiti, non dà risposte ma fa domande, non riproduce ma produce, è impegnata nel fornire una interpretazione non progressiva della realtà.

"L’arte turba, la scienza rassicura". (George Braque)

Ogni passo avanti nella comprensione del mondo ha qualcosa di sovversivo, di rivoluzionario perché entra in conflitto con idee precedenti. Continuamente ridisegniamo il mondo sostituendolo con un altro più misurato e più dominabile, cambiando la geometria dei nostri pensieri. La natura continua ad essere inesauribile. Più comprendiamo e più scopriamo che c’è altro che non sappiamo. Troviamo modi più efficaci di pensare ma poi scopriamo che ce ne sono altri ancora più efficaci. Il sapere è dinamico, non statico - il movimento ci tiene vivi ma ci rende inquieti.

Con i nodi si veste l’opacità che s’annoda e s’aggroviglia nella carne in continua trasformazione nel tentativo di svelare la complessità nascosta di cose che superficialmente appaiono semplici o comunque non interessanti da essere indagate, cioè l’insospettabile che ci circonda.

Le immagini si consegnano al mutismo loquace della materia che, essendo sostanza oscura ma dotata di plurime vocazioni, spesso comanda e impone le sue condizioni mostrandosi nella sua consistenza di superficie anziché come passivo schermo di proiezioni. Sabbia trasformata dal vento che sembra incessantemente secernere la propria forma. Corso espressivo che si nutre anche di assunzioni e di immissioni oggettuali contaminando il piano di alterità che l’aspettativa attribuisce al pittorico.

Una pittura sicuramente innamorata della propria fine, apparentemente impegnata a destituire di senso il senso, fino alla vertigine del vuoto ma condannata poi a ricominciare: un laboratorio barocco in cui la sorpresa e la bizzarria rilanciano il gioco del significante e dell’immaginario.

Un’esperienza con la quale il confronto, non essendo deducibile da regole, costringe a stabilire regole possibili per comprendere ciò che continua a vivere oltre il conosciuto.

Ma nella consapevolezza che il cielo si sia inesorabilmente svuotato, la materia, abitata più di assenze, resta plasmata dal peso del disincanto e dal linguaggio che si scopre capace di cogliere la fatica di essere.

Un "fare" che è frutto di un indecifrabile fenomeno, orientato al disvelamento della corrispondenza che esiste tra l’astratto e il sensibile, al riscatto dalla triste sudditanza al dominio del possesso e determinato nell’esprimere la domanda di eternità che si nasconde tra le ferite del vivere. Una "macchina" predisposta per inventare un mondo possibile oltre quello reale e scaturita dall’idea forte che alla trasparenza della proibizione va contrapposta l’ambiguità della cultura.