Indietro Francesco Gallo Mazzeo

Testo critico sul catalogo della mostra “La macchina dei nodi”

“Contaminazioni nodi Redivo”

Il nostro tempo è come un grande enigma, sfuggente, frutto di tanti segmenti formali, fortemente individuali, in preda ad una forte radicalità antropologica, con una vistosa attenzione alla trasformazione, all’originalità, attuata con un incessante percorso, tortuoso e intrigante, di scivolamenti e trasgressioni, tesa alla non appartenenza, anche quando (come nel caso delle arti visive, sia tradizionali che sperimentali) sono collocabili all’interno di una comprensibile griglia interpretativa per quanto sfuggente, in continua metamorfosi.
Sono veramente pochi, proprio pochi, disponibili a cedere un poco di sé, alla propria originalità, per metterla in comune con gli altri e rompere il muro dell’isolamento, dell’individualismo esasperato, del pur necessario narcisismo, per creare una rete leggendaria, fatta di invenzioni formali e suggestioni gestuali, in cui ciascuno possa leggere un po’ più di sé nel mondo degli altri e del mondo nel proprio universo interiore.
Si tratta di un atteggiamento diffuso, contaminante, in cui le negazioni e le affermazioni rispetto alla nomenclatura della tradizione e alla enigmaticità della sperimentazione, che porta verso la indicibilità, nella dubbiosità ricorrente, delle opere creative, che nella loro materialità sono più avanzate del linguaggio verbale, in quanto non hanno le responsabilità comunicative di quest’ultimo, potendosi depositare totalmente sul versante espressivo, come presa d’atto della visibilità, apertura verso il sublime, come complessa essenzialità di cui prendere atto, sia visivamente che nel complesso delle valenze sensoriali.
Tutto ciò porta a una grande schizofrenia, ad uno spreco di energia, in attività ondeggianti di nascondimento e di svelamento, tanto da far dire che la pittura del nostro tempo, i pittori e gli artisti del nostro tempo, hanno perso ogni senso del tragico e del drammatico, configurandosi nel momento ludico come una sorta di corazza esteriore, con cui separarsi dagli altri, con una sorta di labirinto interiore, con cui separarsi da se stessi.
Ma, in flagranza di eventi la cui matrice e la cui corporalità sono necessariamente ascrivibili in un dubbio in progress, io non sono sicuro che non siano avvenuti cambiamenti tellurici, strutturali, nel modo di cogliere e vivere i sentimenti e le emozioni, piuttosto sono cambiati i modi di rappresentarli, di darne conto, in maniera verbale, narrativa o poetica e soprattutto s’è modificato il modo di rappresentarli, di farne factura materiale, come conglomerato di solidità e liquidità, tangibile come effetto plastico della fantasmaticità pittorica, percepibile, come visibilità dell’invisibile.
Gualtiero Redivo, con la sua saturnalità laboratoriale, fatta di imprevedibili intrecci compositivi, di confronto risolutivo, con frammenti umorali della vita e della sua continua scansione, in termini di azione e reazione, a ciclo continuo, senza intermissione, come se il suo super io, inflessibile gli imponesse (ma, alla fine è l’intreccio emozionale, umorale e psicologico a scegliere, con determinazione poetica e architetturale), nella lunga scia della transitività ondeggiante che sa di Burri, come carnalità della composizione, che sa di Fontana, come spazialità sublime, che sa di Manzoni, misturalita’ provocatoria e irritante, ma anche della determinazione elaborativa, che parte dal dadaismo e giunge fino a territori nomadi dove oggi vigono personaggi come Anish Kapoor, come Hermann Nitsch, come Damien Hirst.
Lo so, di aprire un taglio sporco, seghettato di concavità e convessità, non lineare nella sua esplicazione poetica e concettuale, dove non tutti i buoni stanno con i buoni e non tutti i cattivi stanno con i cattivi, perché nel tempo della nostra vita spirituale e biologica non ci sono separazioni nette e tutto si mescola inesorabilmente, anche perché il tragico e il drammatico hanno perduto ogni connotazione romantica, ogni alone di leggenda, disseminandosi nella selva della visibilità, dell’eclatante a tutti i costi, per un attimo di video, di giornale e poi subito lo spegnimento di ogni successo, per l’evento successivo, per la cestinatura, per la discarica, nel regno totalitario del rifiuto.
A questo punto, interviene (nel senso che può intervenire) nell’ambito di un’intrigata querelle, tra il caso e la necessità, Gualtiero Redivo che fa da raccoglitore emergenziale, dell’oggetto non più oggetto, della cosa non più cosa, per proporli ad un nuovo caso, ad una nuova necessità, come dire, a tanti, ognuno per sé, senza fare tante premesse teoriche, senza farsi tante illusioni, con la forza di volere entrare in altri tempi e in altri luoghi, con la forza del quid, che si viene a determinare, nella lotta del fare contro il non fare, nella luce contro l’ombra.
Consiste, proprio in questo modo d’essere e di fare il nucleo di forza, di originalità, di questi lavori, che nella loro genealogia, devono tanto a tanti, come cultura e antropologia di linguaggio, come tipologia espressiva, come genere emozionale, come anarchia stilistica, nella consapevolezza, che l’opera, questo tipo di opera, come concerto dodecafonico, di una, cento, mille opere, che si somigliano, quel poco o quel tanto, con cui si possono assimilare gli stati d’animo: ecco possiamo dire che si tratta di accumulazione di materiali metamorfici, resi in termini esistenziali e quasi mistici di una personale vocazione alla pittoricità, di una sconcertante individualità, che non si piega alle virtù rovesciate della moda ed ai capricci della volubilità stagionale, che non deve niente a nessuno, se non a se stesso e al proprio infaticabile specchio.
In questo senso, in questo panopticon, della verisimiglianza rovesciata, disarticolata, della sconcertante fisicità visuale, si viene ad esprimere, un vero e proprio spirito del tempo, del secolo breve, appena passato e delle enigmatiche ore del presente, dell’attimo che fugge e scalfisce ogni residua verginità, segnando un vero spartiacque, tra quanti in modo diverso vivono nello stesso tempo, appropriandosi ciascuno, di un punto di vista, fatto di tanta purezza, ma anche di tanta misturalità che viene dall’infinita passione del fare, in termini di un erotismo sublimato ed effusivamente metafisico. Avviene così, che per ognuno di noi, l’artista, mezzo mago e mezzo sacerdote, immerso nel proprio io avvolgente e labirintico, ci metta una parte del proprio segreto, della propria intimità, inerente alla propria sensibilità personale, il proprio modo di sentire e di vedere, per farlo sentire e vedere a noi.
Un grande gioco, elaborato e raffinato, in fin dei conti, fatto di un complicato, narcisistico, incrociarsi di specchi opachi, che sono le fantasiose anarchie delle valenze compositive, del farsi e disfarsi dei linguaggi e di quid, che si propongono all’assillo del voler dire senza dire, concentrandosi sull’espressione, come spontaneità, dell’apparenza sottratta ai codici orizzontalmente e verticalmente ordinati.
Corde, che non sono più corde, ma intrecci e armonie, plastiche che non sono più chimica, ma alchimia, escrescenze che non sono esuberanze ma tattilità, implosioni che sono arricchimenti stratificati, tramature pittoriche, come intensità visuali e fantastiche, collages, come misture tecniche della diversità, per affermare un superamento sublime della figuratività, fatta in modo ritmico, poetico, in modo che niente si possa presentare immediatamente, con nudità povera, perché su ogni momento, aleggia uno spavaldo spirito barocco, che invoca il nulla, ma aspira superbamente al tutto, come congresso dell’anacronismo dell’arte e della sua suprema contemporaneità.
Su questo punto, vengono a convergere i momenti di un disordine, che non entra mai in crisi, perche con essa vive, nell’universo della ripetizione, uno scambio simbolico, di simulazione e dissimulazione, in cui l’artista dà le proprie carte segnaletiche informi, “trasformistiche”, per partecipare (e possibilmente) vincere la scommessa dell’incomunicabilità, col muro invisibile e corposo (vera forza del paradosso) che si erge intorno a tutti come specie e intorno ad ognuno, come individuo, maxime se artista, che vive la speciale condizione della lucida follia, del cammino da compiere nell’immobilità fra prosa e poesia, tra tormento e estasi, in un altalenìo continuo.
Così il contesto, umanamente ricco e complicato di Gualtiero Redivo, fatto di prorompente energia, covata “follemente” per tutta una stagione all’inferno (per dirla con Rimbaud), finisce per essere una prova di pittura, un modo d’andare oltre l’ordinario, che compare e scompare, verso la fissazione irrevocabile di immagini che vanno oltre le parole, in una disseminatio, qui e altrove.